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Lettera di un soccorritore

Lettera di un soccorritore

Un immenso grazie alla nostra soccorritrice Valentina che condivide insieme a noi la sua bellissima lettera sull' "essere un soccorritore".

Lettera di un soccorritore

Stasera voglio parlarvi del mio lavoro. Dico “mio” perché ho scelto di essere un soccorritore e per questo considero questo lavoro una parte di me. Probabilmente non vi dirò nulla di nuovo, ma ricordarlo insieme mi sembra una cosa carina. Essere un soccorritore significa sentire un qualcosa che ti proviene da dentro, è un qualcosa che non si riesce a spiegare bene perché sta a metà strada tra l'incoscienza di sapere che rischiamo qualcosa su ogni servizio e la coscienza del fatto che quando lo svolgiamo al meglio, non avremo nulla da rimpiangere. Io dico sempre che ogni servizio è a sé, diverso dall'inizio alla fine. Già dalla chiamata della centrale inizia a salirti l'adrenalina che è proporzionata al tipo di codice intervento che ti assegnano. Quando metti in moto l'ambulanza preghi sempre che il navigatore trovi subito l'indirizzo e inizi a domandarti quanti incidenti dovrai evitare, quanti insulti ti prenderai perché la gente crede che noi usiamo le sirene perché siamo dei prepotenti e vogliamo attraversare gli incroci col rosso. Ma cari i miei utenti, credetemi, ogni incrocio che io passo in sirena, lo passo trattenendo il fiato e facendomi venire il mal di testa dalla tensione, con la speranza che nessuno di voi sbuchi all'improvviso e mi venga addosso. Quando arrivi sul target pensi a chissà cosa ti troverai davanti agli occhi e sali quei piani pensando se non fosse stato meglio salire le scale per evitare di rimanere bloccati in ascensore o se prendere l'ascensore per evitare di arrivare mezzo morto al settimo piano e non aver più le forze di far nulla. Quando si apre la porta di casa spesso si vede il parente di turno che ti sorride e capisci che tutto sommato la situazione potrebbe essere tranquilla. A volte chi ti apre è qualcuno che già polemizza perché ci hai messo troppo tempo per arrivare e ti ritrovi a discutere e giustificarti e allora pensi che poi il paziente non è così grave se il parente ha tutto questo tempo e voglia di litigare. E poi finalmente, dopo questa tempesta di emozioni che ti travolge -dalla chiamata al parente-, giungi al paziente che chiunque esso sia, vede in te non il supereroe che salverà il mondo -come tanti di noi son convinti di essere- ma la speranza. Si, perché i loro occhi si illuminano, quasi si riempiono di lacrime e ti accennano un sorriso perché loro sanno che tu non li guarirai in quel momento -i parenti di solito invece, sono convinti di questa cosa- ma si sentono al sicuro quando ci siamo noi. E non c'è una formula scientifica che spieghi questa cosa, si chiama semplicemente empatia. A volte ti fermi ad ascoltare l'anziano che ha bisogno di parlare, altre volte trovi un uomo lasciato dalla moglie e allontanato dai figli, donne che a forza di correre per il lavoro e la famiglia si fanno venire esaurimenti nervosi, ci sono gli adolescenti, quelli facili che si fanno venire il mal di pancia per non fare l'interrogazione e quelli difficili che vivono situazioni che li portano ad un malessere generale che nasconde il loro dolore, e poi ci sono i bambini... Ecco, i bambini, i peggiori pazienti che si possano trovare. In questi anni le mie ambulanze sono diventate barche dei pirati, navi spaziali, castelli di principesse, insomma di tutto un po' ma non perché il soccorritore sia pazzo ma semplicemente perché un bambino che sta male ha bisogno di essere rincuorato e di sicuro non può farlo una persona che nemmeno conosce. Così inizi a chiedergli chi è il suo eroe preferito, il suo calciatore, la sua principessa preferita e per questo bisogna sempre essere aggiornati in materia. Ma se il bambino dice no, fatevi il segno della croce perché è un no. Non salirà con te in ambulanza, non si farà mettere quel fastidiosissimo ghiaccio e non gli importerà se tu sei lì da mezz'ora a cercare di convincerlo che il pehaft è la ragnatela di Spiderman. Ma soprattutto, se lui dice niente sirene, tu le sirene non le metti. Essere soccorritore a volte significa dover mediare, trovare un accordo tra il paziente col parente e la centrale operativa perché uno dice un ospedale e uno ne vuole un altro. Significa lottare a volte con la centrale operativa perché tu provi a spiegargli magari che se il paziente satura 80 e ha una frequenza tra i 30 e i 35 e ha l'ossigeno a 15 da quasi mezz'ora, forze è il caso che ti mandino un'avanzata che però, a volte non è disponibile e ti prendi responsabilità che non ti dovresti prendere e trasporti tu il paziente. Ma non perché vuoi essere l'eroe di turno, ma perché pensi che potrebbe esser tua madre, tuo nonno o tuo fratello e non vorresti aspettare del tempo in più per farlo arrivare in ospedale. Significa arrivare in ospedale e discutere con il triage perché non hanno i presidi da restituirti, perché ti bacchettano per come hai messo il ragno, per come non hai messo il collare e per tanti altri svariati motivi. Ma ci sono giorni in cui si complimentano con te per il servizio svolto, perché quei campanelli di allarme ti hanno portato a capire che forse il tuo codice v04 era in realtà un ictus e la tua tempestività potrebbe avergli salvato la vita. Essere soccorritori significa diventare amici dei pompieri, dei carabinieri, della polizia e dei vigili urbani -anche se questi ultimi se devono farti la multa te la fanno lo stesso quando non sei in ambulanza-, ma non perché ti fermi a parlare o a prendere con loro il caffè, ma perché per alcuni istanti condividi con loro le stesse emozioni -quando stai facendo un'apertura porte, quando sei davanti ad una macchina capottata, quando ti scortano fino in ospedale, quando rischiano di farsi investire per fermare le macchine e farti passare nel traffico. Essere soccorritori significa parlar male delle altre associazioni essendo consapevoli che in caso di necessità bisogna collaborare mettendo da parte il colore delle divise ed essere una cosa sola perché in fin dei conti il servizio bisogna portarlo a termine nel migliore dei modi. Ci sono volte in cui non sempre va bene perché il tuo servizio si è concluso con un nero, ma questo non vuol dire che siamo soccorritori peggiori, ma semplicemente che la signora in nero per una volta ha avuto la meglio. Ma l'importante è sapere che abbiamo fatto il possibile per vincere quella battaglia e che alla prossima arriveremo più forti e preparati almeno emozionalmente. A volte ci porteremo a casa i nostri servizi, ne parleremo in famiglia, ci confronteremo con i colleghi per capire se avremmo dovuto o potuto far di più, o semplicemente ci chiuderemo in noi stessi domandandoci se avremmo potuto far qualcosa di diverso e se abbiamo seguito il protocollo alla lettera. Ma il soccorritore è anche quello che tornando a casa si sente finalmente una persona normale perché ha davanti ai suoi occhi la persona amata o il proprio figlio e capisce che per quanto dura sia stata la sua giornata, avrà sempre un posto dove rifugiarsi. Spesso si domanda “Ma chi me lo ha fatto fare?”, ma poi senza risposta sarà già salito sull'ambulanza e a quella domanda non darà mai risposta... Ecco signori miei, questo è il soccorritore, questo sono io, siamo noi e il nostro essere speciali per gli altri e in fin dei conti mi piace pensare che ognuno di noi lo sia, perché solo le persone speciali come noi possono avere una vocazione del genere.

Collegno, 21 Dicembre 2018

Valentina S.

Soccorritrice Croce di Collegno